Chi sono gli stranieri presenti oggi in Italia? Da dove arrivano e per quali ragioni? Come viene regolata la loro presenza? L’immigrazione è un fenomeno complesso, radicato nelle condizioni sociali del paese e nelle trasformazioni degli ultimi decenni. Un fenomeno parte di un processo più ampio che ha investito in tempi diversi tutti i paesi dell’Europa occidentale e che ha reso gli immigrati una presenza stabile. Dopo la ricostruzione del quadro delle politiche migratorie passate e presenti in Italia, gli autori tratteggiano i contorni di una realtà composita destinata a incidere sempre più su tutti gli aspetti della vita economica e sociale.
- Quando si tratta di ruoli di successo, il fatto di essere straniero diviene un aspetto marginale o al più un riferimento utile per conferire un alone addizionale di esotismo e mistero alla sua figura. Quando presentato in ruoli più quotidiani e meno appetibili, lo straniero viene spesso associato a condizioni di vita e di lavoro che ricalcano fedelmente stereotipi piuttosto triti.
- L’elevato numero di irregolari dipende piuttosto dalla presenza di una forte domanda di lavoro straniero e dall’assenza di canali d’ingresso legali.
- Alcuni sistemi migratori risultano contraddistinti da una marcata presenza maschile; si pensi ad esempio al caso dei senegalesi, in cui risultano quattordici uomini per donna, ma anche a quello dei paesi del Nord Africa, del Bangladesh e del Pakistan, in cui gli uomini sono in numero da sei a otto volte superiore a quello delle donne. Altri, invece, sono a prevalenza femminile e hanno mantenuto tale caratteristica nel tempo. Ancora oggi, in gran parte delle principali comunità sudamericane, ma anche Etiopia e Somalia, Filippine, Polonia e Russia, le donne sono il doppio degli uomini e in triplo.
- E nessuno Stato contemporaneo può operare controlli sistematici dei documenti della popolazione presente senza penalizzare la vita sociale del paese ed aumentare la conflittualità. Per non parlare dei costi che una tale attività comporterebbe: si pensi soltanto che i costi dell’espulsione coattiva di uno straniero irregolare dall’Italia si aggirano tra gli 845 e i 4.767 euro.
- L’assenza di possibilità d’ingresso legale produce il proliferare di stranieri in condizione irregolare.
- Dagli anni ’90: cominciano in questi anni, infatti, a registrarsi ingressi propriamente clandestini, che sino a quel momento erano una vera e propria rarità, e si comincia a costruire un’offerta di servizi professionali di supporto all’attraversamento irregolare degli stessi confini.
- Tuttavia, il sistema economico italiano continua ad esprimere una forte domanda di lavoro straniero che, in assenza di possibilità di ingresso legale, finisce per creare un nuovo strato di stranieri irregolarmente presenti.
- In altre parole sono stati introdotti disincentivi all’ingresso regolare che finiscono inevitabilmente, dato il carattere strutturale della domanda di lavoro straniero, per favorire l’instaurarsi di nuovi segmenti di immigrazione irregolare.
- La legge Bossi-Fini è quindi sicuramente meno radicale di quanto la retorica dei proponenti potrebbe fare pensare:
- Il risultato è una nuova legge sull’immigrazione, la 189/2002 detta Bossi-Fini, che introduce alcune significative novità restrittive in tema di controllo degli stranieri, lasciando tuttavia formalmente inalterate le precedenti norme relative alle politiche d’integrazione (peraltro, come si è visto, già abbondantemente inapplicate). Per ottenerne l’approvazione, inoltre, la maggioranza si è trovata costretta ad accompagnarla con il lancio di una nuova sanatoria. Un aspetto importante della legge 189/2002 è l’introduzione di alcune misure volte a facilitare il contrasto dell’immigrazione irregolare: viene, infatti, introdotto l’obbligo per gli stranieri di rilasciare le proprie impronte digitali al momento di richiedere il permesso di soggiorno e al momento di ogni rinnovo, vengono estesi i motivi che rendono uno straniero passibile di espulsione, vengono inasprite le pene nel caso che lo straniero si sottragga all’esecuzione del provvedimento o ritorni successivamente nel paese, viene raddoppiato il periodo nel quale lo straniero irregolare può essere trattenuto coattivamente in attesa dell’espulsione, vengono introdotte alcune norme volte a rafforzare i controlli di frontiera soprattutto per quanto riguarda le frontiere marittime. Queste norme hanno scatenato una vivace polemica politica, facendo parlare molti osservatori di una legge xenofoba e razzista. È tuttavia anche vero che misure simili sono in vigore in altri paesi democratici e che lo stesso obbligo delle impronte digitali è stato alla fine presentato come un’anticipazione di un provvedimento che riguarderà in futuro anche i cittadini italiani, riducendone quindi fortemente la valenza discriminatoria. Meno attenzione è stata dedicata a valutare la possibilità operativa di dare corso a tali norme senza procedere ad una riforma organizzativa dell’apparato del ministero degli Interni e senza operare ingenti investimenti in infrastrutture e macchinario. La stessa richiesta delle impronte digitali potrà avere un’utilità limitata nell’identificazione degli stranieri che transitano dalla regolarità all’irregolarità perdendo il permesso di soggiorno, un caso che nel sistema migratorio italiano è piuttosto raro. Ma esso non cambia la situazione per l’ampia parte dei nuovi ingressi irregolari, che arrivano in modo clandestino o, più frequentemente, utilizzando visti turistici. Le stesse norme sulle espulsioni sono inoltre difficilmente attivabili senza poter contare sulla cooperazione dei paesi d’origine e di transito, che, come si vedrà, vedono tuttavia fortemente penalizzati i propri interessi dall’abrogazione della politica attiva degli ingressi prevista nella legislazione precedente.
- Dopo un trentennio gli effetti di tale prospettiva politica sono anch’essi conosciuti piuttosto bene: un elevato numero di ingressi irregolari o clandestini, il continuo ricrearsi di segmenti d’immigrazione irregolare occupata irregolarmente, forti perdite erariali per l’omissione contributiva e l’evasione fiscale, una perdita di controllo del territorio legata alle dimensioni dell’irregolarità e all’assorbimento delle forze di polizia in attività pseudo-anagrafiche a scapito delle attività investigative, il mantenimento di centinaia di migliaia di immigrati regolari in condizioni precarie, una scarsa stabilità della popolazione straniera con tutte le difficoltà che questa provoca alla loro integrazione, un’assenza di una politica realistica per le seconde generazioni, nate e cresciute nel paese.
- A differenza di quanto si pensa, le famiglie, assai più che gli individui, sono l’attore strategico sia dei processi migratori che, come vedremo, dei processi di integrazione.
- Le decisioni migratorie vengono prese nel contesto di insiemi più ampi di individui, in genere famiglie, che agiscono per fini collettivi, come il tentativo di assicurarsi una fonte di reddito aggiuntiva che serva da possibile trampolino di lancio per un suo membro.
- Aggregati domestici, singolarmente o associati in reti di parentela, possono poi anche usufruire di fonti di reddito per impieghi sul territorio di partenza, come accade ai senegalesi originari del villaggio di N’Galik residenti in Lombardia che negli anni ’90 utilizzavano le rimesse per dotare di infrastrutture il luogo in cui erano rimasti familiari, parenti, amici.
- Transnazionalismo
- Nel modello transnazionale le famiglie – ma la stessa cosa fanno anche altri attori collettivi come le cerchie amicali, le reti di parentela o le confraternite religiose per limitarsi ad alcuni esempi – dislocano strategicamente i propri membri tra il paese di origine e uno o più paesi di approdo;
- Altri sostengono che il transnazionalismo è in realtà l’esperienza della prima generazione, ma si estingue rapidamente man mano che i figli crescono in un altro paese.
- Ma è chiaro che alcuni sistemi migratori stanno entrando in una nuova fase della loro storia, caratterizzata da un progetto di insediamento stabile, di investimento nella società di approdo.
- È in questo passaggio da una fase in cui sono presenti solo lavoratori o lavoratrici soli, a una fase in cui sono presenti famiglie e figli, che può crescere la domanda, in particolare di alloggi di servizi sociali, e più in generale di un pari accesso alle opportunità sociali.
- Così tra i giovani immigrati nordafricani giunti in Italia da soli con progetti di tipo consumistico-esplorativo, la distanza tra il luogo in cui si è soggetti al controllo diretto da parte della famiglia e quello in cui tale controllo non può essere esercitato costituisce un fattore di allontanamento dalla conformità dei comportamenti.
- È noto per esempio che nel sistema castale indiano l’ipergamia, ovvero la mobilità sociale ascendente verso una casta superiore per mezzo del matrimonio, è consentita solo alle donne, perché i gruppi di rango elevato presidiano i confini della casta e non consentono l’accesso al proprio interno di membri che possano contrapporre alla gerarchia della casta quella del genere. Così, dato che godono di meno potere degli uomini, le donne possono essere accettate, anche se provengono da una casta inferiore. D’altra parte anche nelle società contadine le famiglie di piccoli proprietari o di mezzadri temevano che le proprie figlie potessero sposare un garzone perché questo avrebbe definito una caduta sociale loro e di tutta la famiglia; e nelle società industriali o postindustriali, come le nostre, basate su sistemi di stratificazione sociale assai lontani da quelli di casta, esistono norme sociali che favoriscono le unioni tra persone provenienti da classi ineguali in cui l’uomo ricopre una posizione più elevata di quella della donna e scoraggiano l’opposto.
- Molti pensano oggi, in Italia, che l’aumento della criminalità sia un fenomeno recente e che tale aumento vada ricondotto all’afflusso crescente di immigrati nel nostro paese. Questa idea tuttavia non trova conferma nelle ricerche, ormai abbondanti e solide. L’Italia ha effettivamente registrato un aumento della criminalità, ma tale aumento risale a un’epoca precedente all’inizio delle migrazioni di massa verso il nostro paese.
- A differenza di quanto pensano molti cittadini, e anche parte degli studiosi, gli stranieri non hanno «sostituito» gli italiani in quella attività delittuose meno redditizie, ma si sono aggiunti a questi ultimi; in alcuni casi, come nello spaccio di droga e nella prostituzione, come nel favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, gli stranieri possono raggiungere anche posizioni di livello medio e medio-alto.
- L’esistenza di scambi economici, come avviene quando i reati dei primi servono a rispondere a una domanda di beni proveniente dai secondi, membri della società «legittima»: è il caso della prostituzione o della vendita di sostanze stupefacenti.
- Ma essi possono anche associarsi con italiani, e la frequenza con cui questo avviene cresce passando dai reati contro la proprietà e violenti a quelli legati ai mercati illegali (come lo sfruttamento della prostituzione e il traffico e lo spaccio di droga).
- In alcuni casi la segregazione è frutto di strategie adottate dalla popolazione autoctona, che definisce le condizioni che favoriscono la concentrazione delle popolazioni in zone particolari. L’obbligo di risiedere in una determinata zona della città e la definizione di vincoli al libero movimento di alcuni specifici gruppi trova il suo paradigma nel ghetto, ovvero nel quartiere in cui erano costretti a risiedere gli ebrei, secondo una modello nato per la prima volta in Italia.
- Ma il comportamento dei proprietari immobiliari può avere un’influenza decisiva sulla distribuzione della popolazione nello spazio urbano, per esempio definendo condizioni particolarmente gravose per gli stranieri che vogliano affittare un appartamento in una certa zona.
- Le relazioni di vicinato in questo caso costituiscono una risorsa che permette un mutuo supporto tra i membri di una minoranza, lo sviluppo di legami familiari e affettivi, l’allacciamento di relazioni economiche o cooperative, il mantenimento di legami linguistici e culturali, il controllo sociale sui comportamenti dei membri giovani o delle donne.
- Consulta per gli stranieri,
- Consigliere aggiunto
- Ancora oggi, ci informa l’Istat, quindici italiani su cento si esprimono solo ed unicamente in una lingua o dialetto diversa dall’italiano. Per quanto sovente esagerate poi, è difficile negare che le diverse aree che compongono la penisola italiana manifestino differenze nello stile di vita, nelle subculture e nell’organizzazione della vita sociale. Sin dalla nascita dello stato unitario, il nostro paese ha inoltre fatto i conti con una forte frattura territoriale tra Settentrione e Meridione, a lungo descritta in termini esplicitamente razziali.
- Riemersa dall’inconscio collettivo in forme del tutto inaspettate. Chi tra coloro che, a cavallo degli anni ’90, chiamava vucumprà i venditori ambulanti stranieri, usualmente senegalesi, ricordava che questa espressione aveva in realtà le sue origini in una canzone di Raffaele Viviani del 1925, che raccontava l’epopea dei nostri venditori ambulanti napoletani in Libia?
- «ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass-media».
- Ancora nell’autunno del 1999, un sondaggio condotto dall’Ispo (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) rivelò come un terzo degli intervistati non conoscesse, nemmeno superficialmente, un immigrato e un ulteriore terzo ne conoscesse qualcuno soltanto «di vista». La stragrande maggioranza di questi intervistati, tuttavia, aveva idee piuttosto dettagliate su quanti gli immigrati fossero, su cosa facessero e sugli impatti che la loro presenza poteva produrre sulla società italiana.
- Il termine «straniero» viene riservato ai residenti stranieri di classe sociale medio-alta.
- Tra il 1976 e il 1981,
- Le opinioni espresse tendono a vedere in tali lavoratori le vittime di un processo rivelatore dei profondi mali della società italiana. La presenza di tante colf straniere viene così ricondotta alle ansie di status della piccola borghesia e alla carenza di servizi sociali adeguati; la presenza di operai stranieri all’inesistenza di una politica dei redditi adeguata che renda appetibile agli italiani il lavoro manuale; la forte presenza di stranieri nella pesca e nell’edilizia all’esistenza di strategie antisindacali degli imprenditori italiani. Gli immigrati, in altre parole, sono la spia del problema, non la soluzione.
- E il sospetto che l’immigrazione si inquadri in una strategia antisindacale del padronato basata sulla diffusione del lavoro sommerso.
- Questa situazione cambia radicalmente nel corso degli anni ’80.
- Tra il 1989 e il 1991
- L’importanza di questa esigenza di differenziare è rivelata anche dal successo del termine «extracomunitario» che – del tutto assente nel periodo 1982-85 – viene invece utilizzato dal 10% degli articoli nel 1989-91. La distanza tra gli «stranieri» (occidentali e benestanti) e gli «immigrati» viene quindi codificata e rafforzata in modo molto intenso.
- Nel corso degli anni ’90, le notizie relative ad atti di criminalità e devianza rappresentano il contesto più diffuso, pari ad almeno un quarto della complessiva offerta informativa avente come oggetto gli immigrati. Un ulteriore 17% delle notizie è rappresentato da articoli che si riferiscono agli immigrati in quanto fonti di problemi di ordine pubblico (ingressi irregolari; scontri tra immigrati e forze dell’ordine, sgomberi, retate ed espulsioni).
- Di converso, sembrano sostanzialmente scomparse dall’offerta informativa i temi sia della partecipazione degli immigrati al mercato del lavoro, della condizione di marginalità e povertà nella quale molti di loro versano e dei servizi pubblici a loro rivolti.
- nel corso degli anni ’90, infatti, la partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro praticamente scompare dalle pagine dei giornali e dei rotocalchi.
- E questo nel corso di un decennio nel quale gli stranieri sono invece diventati, come abbiamo documentato nel capitolo precedente, una componente strutturale del lavoro – manuale in ampia – parte dei tanti mercati del lavoro italiani.
- Secondo alcuni, gli italiani sarebbero la proverbiale brava gente che, magari lamentandosi, sarebbe sentimentalmente ed emotivamente disponibile – alcuni dicono sin troppo – a comprendere le buone ragioni degli immigrati, a giustificarne i comportamenti, a chiudere un occhio per difenderne le richieste. Secondo altri, invece, gli italiani sarebbero un popolo piuttosto razzista, poco incline a difendere i diritti e la dignità degli stranieri e molto incline invece a sfruttarli in tutti i modi quando ne esiste la possibilità.
- Nella nostra vita quotidiana, noi non incontriamo mai «l’immigrazione». Al più incontriamo o osserviamo alcune persone – numericamente molto poche – che sono molte altre cose oltre che «immigrati».
- Infine, conoscere cosa una popolazione pensi in astratto di un fenomeno è fondamentale per comprendere i quadri cognitivi che governano un certo contesto, quali esperienze concrete verranno valorizzate e raccontate e quali invece rimarranno non espresse o latenti.
- Già nel novembre 1977, domandava come fosse possibile che, nonostante l’elevata disoccupazione, «le fabbriche per coprire il fabbisogno di manodopera» dovessero «reclutare lavoratori dal terzo mondo». L’immagine dell’immigrazione era quindi quella di una migrazione di lavoratori in risposta a una domanda proveniente dal sistema economico italiano. Sei italiani su dieci già all’epoca si dichiararono d’accordo con l’idea che tale reclutamento avvenisse principalmente per ricoprire posizioni lavorative che gli italiani ormai rifiutavano. Un numero sostanzialmente equivalente, tuttavia, si espresse a favore dell’idea che tali lavoratori venivano reclutati in quanto costavano meno e solo una percentuale leggermente inferiore condivideva la tesi che la loro presenza fosse desiderata dagli imprenditori in quanto essi erano più facilmente licenziabili.
- Il padronato utilizzasse tali lavoratori per conseguire maggiori profitti e godere di minori vincoli.
- Un quinto delle risposte li associava al commercio ambulante e poco più di un intervistato su dieci menzionava come sbocco dell’immigrazione la disoccupazione, l’accattonaggio e lo svolgimento di attività variamente malavitose.
- Secondo il sondaggio dell’Ispo, sette italiani su dieci sono concordi nel ritenere che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, un numero persino superiore a quanto la Doxa aveva registrato negli anni ’70. Nella stessa ricerca, inoltre, solo il 16% degli intervistati vede gli immigrati condannati a un destino di disoccupazione e di marginalità sociale. Il 40% li vede destinati ad un inserimento pieno sia sul mercato del lavoro sia sulla società e un numero paragonabile non vede problemi con il loro inserimento lavorativo pur mostrando maggiori dubbi sul loro inserimento sociale.
- In generale, a livello internazionale è ormai noto che non esistono popolazioni «favorevoli» all’immigrazione.
- Se le politiche degli Stati Uniti avessero seguito i desideri dell’opinione pubblica, ha concluso uno storico, quel paese sarebbe ancora popolato da piccoli insediamenti di anglosassoni.
- Il primo sondaggio, condotto a cavallo tra il 1987 e il 1988, documentò come circa la metà degli intervistati giudicava «troppi» gli immigrati presenti all’epoca in Italia. Qualche anno dopo, nel 1991, questa percentuale era schizzata decisamente verso l’alto: sette italiani su dieci esprimevano la stessa opinione.
- Nel 1997 soltanto sei italiani su dieci giudicano la presenza immigrata eccessiva.
- La valutazione dei vantaggi e degli svantaggi dell’immigrazione sembra piuttosto variare ciclicamente, a seconda del clima sociale.
- Lo stesso sondaggio, inoltre, documenta una maggiore disponibilità degli italiani a contribuire finanziariamente ai servizi necessari per l’integrazione degli immigrati rispetto alla disponibilità pur presente di sostenere maggiori spese per controlli alle frontiere più rigorosi.
- Pochi italiani vedono nell’immigrazione un pericolo per la cultura italiana.
- Nell’opinione pubblica italiana, la valutazione negativa dell’immigrazione è quasi sempre da ricondurre alla sua potenziale capacità di generare maggiori livelli di attività criminose.
- Sette italiani su dieci si dichiaravano contrari a nuovi ingressi, anche se ciò fosse risultato necessario per le attività delle aziende italiane.
- Sette italiani su dieci riterrebbero giusta una legge sulla cittadinanza molto liberale, che consentisse agli stranieri presenti regolarmente di divenire cittadini italiani in meno di cinque anni. La stessa percentuale di intervistati vorrebbe facilitare al massimo la naturalizzazione dei figli degli stranieri nati in Italia.
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