Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza

Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull'infanzia e l'adolescenza
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Pubblicato: 2006
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Che cosa significa oggi educare? Siamo ancora depositari di un discorso ‘forte’ da trasmettere ai nostri figli? E siamo in grado di ascoltare? Questo libro è il diario di un testimone che ha provato a raccontare l’arte difficile dell’incontro tra generazioni diverse. Da anni Paolo Crepet viaggia lungo l’Italia per incontrare genitori, studenti, insegnanti, educatori. Da questo lavoro di ascolto, sul campo, sono nate le riflessioni contenute nel libro. Si parla di noia, di creatività, di droga, di felicità, di famiglie per bene, di microcriminalità, del diritto alle emozioni, della solitudine e dell’autismo tecnologico, di politica della città, di una scuola nuova e mite, della risorsa della diversità, della necessità di insegnare a rallentare il nostro tempo. La scuola e la famiglia sono attraversate da una crisi silenziosa; nulla è più come qualche decennio fa eppure sembra difficile per tutti trovare nuova autorevolezza e disponibilità a guardarsi con spirito autoritario. Né manuale né saggio, questo libro contiene rabbia e indignazione per ciò che non si fa per amare i nostri bambini e i nostri adolescenti. E la convinzione che questa sia la sfida più difficile e affascinante per la nostra comunità.

Non Siamo Capaci di Ascoltarli
Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza
€ 12,00

  • Un tempo 30 anni fa anche 40 il diploma di scuola media superiore garantiva un qualche sbocco professionale oggi nessun professore universitario si avventurerebbe ad affermare che il primo diploma di laurea (la cosiddetta laurea breve) rappresenti la pur minima garanzia di un impiego all’altezza degli Studi effettuati e allora perché spezzare in due in corso di laurea, se poi comunque il giovane dovrà completare l’iter formativo per poter iniziare a orientarsi nel mondo del lavoro?
  • E non è finita: nemmeno la laurea di secondo livello garantirà granché. Occorrerà addentrarsi nella fitta selva di offerte di Master (un menù che prevede qualsiasi argomento a qualsiasi prezzo di qualsiasi qualità).
  • Ma neppure i Master garantiscono una protezione adeguata agli sforzi compiuti. Nel frattempo quella ragazza o quel ragazzo si saranno avvicinati ai 30 anni e continueranno a dipendere economicamente dai genitori: una situazione che non ha eguali in Europa.
  • Alla fine forse arriverà un contratto di lavoro naturalmente precario. La parola “flessibilità” è diventata sinonimo di sfruttamento quindi già da una fotografia di come appunto anche attraverso l’istruzione non è che si può arrivare ad avere la certezza di avere un futuro.
  • Si pretende che i figli siano sempre i primi. Quindi può capitare che il papà risponda: “Ma come non prendevi sempre 9 e allora stai perdendo tempo, ti stai distruggendo”. I primi della classe non hanno alternative e vivono in un’unica dimensione: l’eccellenza. Molti insegnanti condividono a tal punto questo dissennato disegno di distruzione della spontaneità dei bambini da aver forgiato frasi celebri del tipo «suo figlio è intelligente ma può fare di più». Ma se un bambino o un adolescente è intelligente, non basta? Perché mai dovrebbe fare di più? E poi cosa c’è di più dell’intelligenza?
  • Ora a parte il fatto che la squadra italiana è del tutto inadeguata a valutare complessivamente un bambino o un adolescente, come non capire che è ingiusto costringere i nostri figli a essere rappresentati da una pagella?
  • I bambini Abarth (come li chiama Crepet) poi a un certo punto si bloccano e questo spesso accade alla fine di un ciclo scolastico: il bambino si sente di aver perduto l’unico terreno ove potersi guadagnare l’affetto e la considerazione degli adulti teme di non esistere più tende. Allora ad odiarsi, a disprezzarsi, si ritiene di aver fallito, arriva a dubitare anche delle reti amicali. Persino il rapporto con l’altro sesso rischia di diventare terreno incerto ed insidioso.
  • Oggigiorno molti genitori lamentano che i figli adolescenti dimostrano scarsa autonomia e forte difficoltà rispetto alle regole di vita.
  • I cortili, i parchi, i prati sono oggi in ospitali o pericolosi e inducono i genitori a vietarne l’utilizzo. I bambini così sono costretti a trascorrere il tempo con la costante presenza di un adulto qualcuno: responsabile per loro delle regole di comportamento.
  • Una volta, ai ragazzini che si davano appuntamento in un prato per giocare a pallone dovevano, ognuno per proprio conto, assumere le regole del gioco: ora i bambini iscritti alle società sportive delegano l’applicazione di quelle stesse regole a un adulto che funge da arbitro. Dunque crescono senza imparare ad assumersi responsabilità.
  • Se lavoreremo di meno, il resto della giornata dovrà essere impiegato nella cura della nostra vita emotiva dovremmo quindi rallentare, imparare a sentire e a conoscerci.
  • Spesso mi capita di sentire un genitore ammettere di non essere riuscito a portare il proprio bambino al funerale del nonno o della nonna per timore di impressionarlo.
  • Il dolore è la morte vengono espulsi dal mondo affettivo del bambino: comportano significati ingombranti, stonano con la patina edulcorata con la quale abbiamo avvolto l’esistenza dei piccoli rendendola così spesso il reale e fredda.
  • Un tempo, poiché si nasceva e cresceva in famiglie assai più numerose di quelle attuali e in cui coabitavano diverse generazioni, accadeva spesso che i bambini assistessero alla malattia e alla morte di un familiare anziano.
  • Oggi questo non accade più, quindi come spiegare un funerale a un bimbo? Come dirgli della gente che piange, di una bara che scende nella terra, di una persona che non potrà più essere tra noi? Al funerale non si parla a quel bambino della morte del nonno, ma della sua vita «Ti ricordi quando ti portava a prendere le paste alla domenica…di quando andavate a passeggiare in campagna con i suoi cani?» La morte dunque spiega la vita, conferisce senso al nostro esistere: quel bimbo crescerà anche attraverso l’elaborazione di quella sottrazione, di quei ricordi, di quelle emozioni.
  • Ciò cui invece un bambino viene esposto frequentemente e lo spettacolo del dolore e della morte, ovvero il loro lato anaffettivo, quello privato di senso. Così la morte reale equivale a quella vista centinaia di volte in un telefilm o al telegiornale, ma anche a quella ancor più virtuale di un videogioco: le sale giochi odierne che altro sono se non la consacrazione della morte come gioco multimediale? Quanti bambini e ragazzi si divertono a uccidere mostri e marziani? La morte per le nuove generazioni rischia dunque di essere un game over.
  • E parla di esercizio dell’autorevolezza. Non deve essere facile, stranamente, per un giovane del nostro tempo trovare un maestro di vita, credere in una giusta causa, avere un eroe.
  • In realtà i giovani invece sembrano affamati di spiritualità e autenticità. Eppure la contraddizione dei giovani che sembrano spenti, ma nel frattempo invece sono affamati di spiritualità e autenticità, e spesso l’apparente cinismo e egoismo che spesso si riscontrano tra gli adolescenti altro non sono che la risposta a una ricerca frustrata. L’autorevolezza è necessaria a crescere quanto le regole. Di queste un bambino ha un bisogno assoluto, quando non gli vengono impartite le richiede, anche a costo di provocare il genitore.
  • Però attenzione! Che guaio chi confonde la giusta e sacrosanta necessità di essere autorevoli con l’inutile esercizio dell’autoritarismo!
  • Eppure il modo più frequente di educare è oggi basato più sul Sì che sul No e questo dipende in buona misura dai sensi di colpa che gran parte dei genitori si sentono addosso come pietre: il sentimento di inadeguatezza di fronte alle responsabilità dell’educare, il timore di essere troppo lontani e assenti o distratti, il sapere di aver lasciato i figli soli sono in casa o delegati ha una baby-sitter oppure nonni.
  • Mi si potrebbe chiedere allora se anche un ceffone deve essere considerato un abuso o addirittura un maltrattamento. Uno schiaffo può scappare anche il genitore più mite, in ogni caso esso segna malinconicamente la nostra incapacità a capire e a educare. È come se pensassimo che dare una botta alla radio che non funziona possa portare a migliorarne l’ascolto.
  • E ben difficile che un bambino nasca e cresca in una realtà perfettamente multietnica. prima che una questione culturale, vi è dunque un problema di identità che un bambino focalizza in quella dei propri genitori e del nucleo sociale in cui si forma: vuole e desidera ciò che i grandi desiderano e teme ciò che essi temono.
  • Se dunque si può concordare con l’affermazione di un poeta straniero che un bambino non nasce razzista e altrettanto ovvio ciò che lo stesso scrittore omette: che non viene al mondo nemmeno anti-razzista.
  • E se gli adulti comunicano attraverso la paura del diverso come non prevedere che anche i bambini diventeranno ragazzi spaventati dall’altro?
  • All’inizio era Carosello. Poi con la moltiplicazione delle televisioni commerciali, l’assalto ai bambini come veicolo ideale per conquistare nuove fasce di mercato si è fatto sempre più pressante: non sono diventati solo degli importanti consumatori di merendine, zainetti e videogiochi, ma condizionano anche ciò che gli adulti acquistano.
  • Le conseguenze non sono difficili da immaginare. La pubblicità non promette una maggiore libertà di scelta ma una sua restrizione. Proviamo a moltiplicare l’effetto seduttivo della pubblicità sui bambini e sugli adolescenti in relazione a oggetti di largo consumo: il rischio è che i loro gusti e le loro preferenze diventino eterodirette, acquisteranno cioè solo alcune cose e tutti le stesse, cresceranno con lo stampino. Così come alcune trasmissioni televisive rischiano di determinare comportamenti e orientamenti culturali omologati.

 

  • Il problema degli orari non è questione secondaria. Il tempo pieno permetterebbe alla scuola di passare dall’istruzione all’educazione offrendo tempi, luoghi e attività finalizzate a dare non solo nozioni, ma soprattutto opportunità di crescita; consentirebbe alla famiglia di riconoscersi in un tempo non più costretto e scandito dai frammenti dei pranzi o delle partite domenicali: una scuola finalmente autarchica dove i ragazzi iniziano e finiscono il loro impegno senza allungarlo insensatamente con i compiti da fare a casa.
  • I giovani si stanno sempre più allontanando dalla scuola perché sempre più faticano a sentirla parte della propria vita, della propria cultura. Troppo spesso in quelle aule non si sentono ascoltati, ma solo giudicati e questo riduce la relazione affettiva con chi a scuola lavora. Occorre dunque ripartire da qui dalla qualità e dignità dell’educare.
  • Ma in modo che i ragazzi si confrontino non su un tema generico ma sul problema concreto di un compagno. tutto sommato il contenuto del confronto è meno importante del metodo. Così si dà senso all’insegnamento, si educa a vivere. La paura dei ragazzi diventa ancora più profonda se temono di rimanere soli, di non essere più tutelati dagli adulti: dando libero sfogo al confronto, si fa emergere la paura per poi elaborarla in un secondo momento. I genitori sono spesso confusi e ciò li porta a non saper distinguere tra cose e persone, a trascurare di insegnare i figli che queste ultime sono sempre e comunque più importanti.
  • Mesi fa ho avuto il piacere di incontrare il sindaco di Forlì, una persona molto preparata e disponibile. Si è parlato di un progetto che potrebbe riguardare una vasta area pubblica dismessa; la mia proposta è stata di utilizzare quel luogo ampio e in pieno centro storico, per realizzare un centro dedicato alla creatività giovanile. Un luogo aperto di giorno e di notte, dove organizzare spettacoli, allestire una sala di registrazione musicale, dipingere, declamare le proprie poesie, cenare in ristorantini autogestiti. Insomma un’officina della immaginazione dei giovani, dei loro progetti, della loro produzione culturale. Ma anche un luogo dove semplicemente stare, incontrarsi, perdere del tempo insieme. Non si tratta di trovare un’alternativa alle discoteche, ma di offrire una risposta al diritto di fare qualcosa di emozionante senza aspettare il sabato e senza dover per forza dipendere dalla birra, dalle pastigline, dalla velocità nella nebbia. È possibile? È un’utopia? Perché una città non può prevedere una risposta ai bisogni dei propri cittadini più giovani? Perché un sindaco non può avere l’ambizione di combattere la loro noia e di sollecitarne la creatività realizzando uno spazio che consentirebbe anche a tanti genitori e insegnanti di capire meno superficialmente i propri ragazzi, di accompagnarli a distanza nel loro processo di crescita senza temerli? Lui come me che ho proposto queste cose a molte Amministrazioni comunali aspetta risposta e speriamo che prima o poi arrivi.

 

  • Non sono casi isolati, fanno parte di quella realtà che qualche sociologo chiama con ottimismo «adolescenza protratta», ovvero di quel fenomeno tutto italiano per cui i ragazzi e le ragazze vivono nella casa lì dei genitori come se fosse un hotel meublé: ci sono sempre a pranzo e a cena portano il partner a dormire nella propria stanza da letto, qualche volta pretendono anche la paghetta come quando avevano 15 anni.
  • Certo che di motivi “esterni”, ovvero di giustificazioni, ce ne sono quanti ne vogliono. Di lavoro effettivamente non se ne trova molto, di affitti decenti meglio non parlarne. in fondo in casa ci sta davvero bene, ci sono meno conflittualità e maggiori libertà di un tempo, dunque le ragioni per uscire sono sempre più deboli e la seduzione a rimanerci diventa irresistibile. in più ai genitori, tutto sommato, non dispiace che per i figli il proprio ruolo sia ancora così fondamentale: è la conferma di un piccolo potere possono continuare a preoccuparci per loro.

 

  • Non a caso gli anglosassoni hanno inventato il college, inteso come zona intermedia tra dipendenza familiare e vita autonoma, in grado di tutelare ancora per un tratto di vita l’adolescente obbligandolo però anche a misurarsi con le prime responsabilità di una vita adulta. Noi non avendo come risorsa i college, almeno potremmo incoraggiare i ragazzi che vogliono proseguire gli studi dopo il diploma a frequentare l’università in una città diversa.

 

  • La cosa più sorprendente è che questo tempo di solitudine è quasi uguale al residuo di comunicazione familiare: la cena. Il tempo meglio in cui si sta a tavola a sera e di 13 minuti al lordo di tutto, telegiornale compreso. Terminata la cena la famiglia si divide in una sorta di diaspora: papà va a sdraiarsi sul divano in salotto a vedere la televisione, mamma vai in cucina a finire di sfaccendare, l’adolescente si chiude nella sua tomba tecnologica – la stanza da letto – a giocare con la Playstation, a telefonare o a chattare con gli amici. Se volete spaventare a morte un adolescente proponetegli di cenare in 26 minuti: inorridirà.

 

  • L’eroina ha colpito i soggetti più fragili e inquieti di intere generazioni; ha messo in luce conflitti individuali e familiari, contraddizioni sociali ed economiche di fronte alle quali la nostra comunità si è dimostrata ancora più debole delle persone che avrebbe dovuto difendere e aiutare.
  • Non sono state le coscienze a turbarsi, ma i portafogli. Gli eroinomani rubavano denari e pezzi di argenteria nelle case, gli stereo nelle automobili, e poi ci scippavano pensionati, rapinavano negozi: l’eroina è stata avvertita principalmente come un problema sociale, economico. Chi fosse quel ragazzo o quella ragazza, cosa cercasse, di cosa fosse fatto quell’enorme buco nella sua esistenza non importava granché: la comunità ha voluto anteporre il controllo della tranquillità nei quartieri alla comprensione di un dolore tanto diffuso.
  • Tutto ciò ha contribuito a rafforzare nell’opinione pubblica l’immagine dell’eroina come una catastrofe di dimensioni bibliche, inarrestabile e incomprensibile alla sua genesi. Forse per questo quando si è parlato di intervento a favore dei tossicodipendenti si è teso a favorire aspettative miracolistiche: non cura ma guarigione totale, non assistenza ma liberazione dal male.
  • Così chiunque nel nostro paese è stato libero di agire, qualsiasi metodo è stato ritenuto lecito pur di togliere di mezzo i disturbatori della nostra quiete sociale, del nostro benessere.
  • Migliaia di tossicodipendenti sono stati impiegati – e molti lo sono ancora oggi – come forza lavoro non pagata con l’alibi della cura e della riabilitazione: per 30 anni decine di comunità terapeutiche hanno nei fatti utilizzato uno slogan impronunciabile, «Il lavoro rende liberi». Nessuno è mai intervenuto per difendere migliaia di giovani dallo sfruttamento perpetuato il nome del controllo sociale, della cura, della guarigione.